Inauguration Day 2017, Washington, Trump

Due giorni a Washington, due anni al Midterm

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In meno di 48 ore la Capitale americana ha accolto il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, e la prima grande manifestazione di protesta contro di lui. Qual è la vera posta politica in gioco? 

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WASHINGTON — Prevista da giorni sui cieli della città per il penultimo fine settimana di gennaio, la pioggia ha comunque scelto un momento simbolico per la sua sporadica comparsa a Washington: le prime parole del discorso inaugurale di Donald Trump. Giusto una decina di minuti, ma sufficienti per essere notati dagli spettatori lungo il National Mall e per rimbalzare nei commenti sui social media. Segno di lutto o auspicio per l’America edizione 2017?

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Washington D.C., National Mall, Discorso inaugurale di Donald Trump

Venerdì 20 gennaio, giurando su due bibbie davanti al Presidente della Suprema Corte americana, Donald Trump è diventato il 45° Presidente degli Stati Uniti. Seguendo una tradizione che risale al secondo mandato di Thomas Jefferson nel 1805, il nuovo Presidente ha poi sfilato lungo Pennsylvania Avenue, diretto alla Casa Bianca. Come da tradizione civica consolidatasi negli anni, centinaia di migliaia di cittadini americani hanno partecipato alla cerimonia del giuramento di fronte al Capitol Hill e alla parata di Trump verso la sua nuova dimora. Ma sabato 21 gennaio, a neanche 24 ore di distanza dalle celebrazioni per il nuovo Presidente, Washington è stata invasa da una folla ancora più numerosa, questa volta per la Marcia delle Donne. E, cosa forse più imbarazzante per Donald Trump, in tutti gli Stati Uniti si sono tenute più di 500 marce simili: per ricordargli che milioni di cittadini non hanno dimenticato la sua campagna elettorale e sono pronti a fargli opposizione sin dal primo minuto del suo nuovo lavoro.

Due giorni e una camminata di 25 km nel cuore della Capitale, per vedere due Americhe la cui distanza sembra spesso siderale e che anche in questa occasione si sono solo sfiorate. Una rappresentazione plastica della polarizzazione presente nella società americana, da decenni sempre più divisa lungo linee culturali ed economiche che si riflettono anche nella frattura della classe politica.

L’AMERICA DI DONALD TRUMP

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Washington, Inauguration Day 2017, sostenitore del Presidente Trump

Il giorno dell’Inaugurazione, Washington ha iniziato ad animarsi sin dalle ore precedenti l’alba. Oltre ai servizi di sicurezza e alla Guardia Nazionale, le avanguardie a muoversi nell’oscurità sono state quelle dei giornalisti chiamati ad intervenire nelle dirette delle trasmissioni televisive locali, che in America prendono il via dalle quattro del mattino. Quando ancora era buio fitto, agli ingressi dei settori più vicini al Capitol Hill si sono poi formate le prime code del pubblico munito di biglietti per le aree riservate. Per quei pochi che avessero avuto ancora qualche dubbio sulla composizione demografica dell’elettorato di Trump, la luce del giorno avrebbe infine portato chiarezza anche a livello empirico: la schiacciante maggioranza dei suoi sostenitori, arrivati nella Capitale in rappresentanza dei diversi Stati, era composta da bianchi.

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Washington, giovane repubblicano spiega le sue ragioni a un gruppo di coetanei e oppositori di Trump

A questo elettorato, cui appartiene quella parte di classe lavoratrice che si sente minacciata dall’America multiculturale e globalizzata, Trump ha ripetuto lo stesso mantra della sua campagna elettorale: l’America prima di tutto. Nel discorso inaugurale, il Presidente non ha fatto alcun accenno alla maggioranza di elettori che non ha votato per lui e il messaggio non ha avuto alcun vero richiamo all’unità nazionale, se non vagamente tramite le parole della Bibbia. Come in uno dei suoi tanti e ormai famosi comizi, ha invece insistito sulla retorica del presunto declino americano, sul piano economico e militare, ribadendo il suo intento di difendere i confini americani e ristabilire il primato degli USA nel Mondo.

Nella migliore delle tradizioni americane, alla cerimonia inaugurale hanno assistito anche migliaia di cittadini che non hanno votato per Donald Trump e che hanno manifestato la loro opposizione a volte issando cartelli o anche solo indossando magliette con slogan e segni di dissenso. Pur in netta minoranza, e circondati dalla massa di sostenitori del Presidente, erano ben visibili in giro per la città e lungo tutte le code che si formavano davanti agli ingressi del National Mall, il grande parco che si affaccia davanti al Congresso e il cui accesso era libero. A parte qualche schermaglia verbale, e spesso più con tono di scherno che non d’astio, la convivenza è stata assolutamente pacifica. Non era nemmeno così improbabile imbattersi in piccolo gruppi che si fermavano per discutere gli opposti punti di vista politici.

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Washington, Downtown, proteste contro Trump organizzate da DisruptJ20

Nelle aree più distanti dal National Mall ma più vicine alla Casa Bianca, l’opposizione non è invece sempre stata pacifica. Attorno a McPherson Square, con l’intento dichiarato dagli organizzatori di DisruptJ20 di raggiungere gli ingressi del Mall per bloccarli, si sono radunati migliaia di oppositori più arrabbiati e radicali, soprattutto giovani. Nonostante la distruzione della vetrina di una banca, il danneggiamento di un’automobile e il fuoco appiccato nel pomeriggio ad un cassonetto dei rifiuti, in realtà solo in pochi casi si sono verificati degli scontri con le forze dell’ordine. La polizia, secondo i rapporti ufficiali, ha proceduto a circa un centinaio di arresti.

La notizia che ha però tenuto banco il giorno dell’Inaugurazione, è stata la partecipazione del pubblico inferiore alle attese. Già poco prima del giuramento, circolavano fotografie che mettevano a confronto l’immensa folla presente alla prima Inaugurazione di Barack Obama e quella ben più ridotta, seppur sempre rilevante, arrivata nella Capitale per Trump. Nelle ore successive, un timelapse ripreso dalla cima del Washington Monument e prodotto dalla televisione pubblica PBS, mostrava come durante tutto il giorno non ci si fosse mai avvicinati al limite della piena capacità del National Mall. Sui social media molti sostenitori di Trump si affannavano a smentire l’evidenza, pubblicando fotografie palesemente fasulle o anche solo con prospettiva appiattita per evidenziare soprattutto le aree adiacenti al palco. Ma per chi, come il sottoscritto, si trovava al fondo del Mall, a partire dall’area riservata alla stampa, e poi camminando verso est, la visuale offriva ampissimi spazi completamente vuoti.

IL NUOVO RUOLO DEI MEDIA

Sabato 21 gennaio, la notizia si arricchita di ridicolo quando Sean Spicer, il nuovo portavoce della Casa Bianca si è presentato davanti ai giornalisti per affermare che l’Inaugurazione di Donald Trump è stata la più partecipata di sempre, “punto”. A parte che nessuno può fornire dati precisi in merito, a sostegno della sua dichiarazione Spicer ha citato i numeri degli ingressi in metropolitana il giorno prima, mettendoli a confronto con le inaugurazioni di Obama. Peccato che in pochissimi minuti sia stato smentito, e già domenica sia stato costretto in qualche modo ad ammetterlo. Perché quegli stessi numeri, in realtà, affermavano il contrario. Nelle 20 ore di servizio del giorno dell’Inaugurazione di Trump gli ingressi sono stati 57omila. Per Obama, nello stesso arco giornaliero, nel 2009 erano stati 1 milione e 100mila, e 780mila nel 2013. La punta dell’assurdo si è raggiunta sempre domenica 22 gennaio, quando Kellyanne Conway, l’ex portavoce della campagna elettorale di Trump, pressata dal noto giornalista NBC Chuck Todd sulle imprecisioni e gli argomenti falsi usati da Sean Spicer, ha definito “fatti alternativi” le dichiarazioni del nuovo portavoce della Casa Bianca. “Alternative facts” è da ore il tormentone sui social media ed è molto probabile che rimarrà il marchio di fabbrica con cui gli oppositori rappresenteranno nei prossimi 4 anni la nuova amministrazione.

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Washington, Trump ha da qualche minuto iniziato il suo discorso inaugurale e ampi spazi del National Mall sono vuoti

L’animato dibattito sulla veridicità dei numeri degli spettatori presenti per l’inaugurazione di Trump può sembrare una questione di lana caprina. Ma il Presidente da settimane ripete che è in guerra con i media, seguendo una strategia già utilizzata in campagna elettorale. Ancora pochi giorni fa, di fronte ai giornalisti che gli rammentavano l’esistenza di un video in cui si vede chiaramente che l’allora candidato Trump sta prendendo in giro un giornalista disabile, mimandone la spasticità, l’ormai Presidente ha continuato ad affermare di non averlo mai fatto. Le cancellerie occidentali preoccupate dalla propaganda e dalla potenziale ingerenza russa nelle loro future elezioni politiche, è bene che facciano invece molta attenzione ai messaggi falsi, prima ancora che populisti, in arrivo dalla stessa America al loro elettorato. Quanto alla stampa americana, dopo essere caduta nella trappola della campagna elettorale e aver fatto da semplice cassa di risonanza acritica ad ogni dichiarazione di Trump su Twitter, sta adesso imparando a non farsi più ingannare dalla comunicazione del Presidente. Quando giusto lunedì 23 gennaio, di fronte ai parlamentari repubblicani, Trump ha ripetuto d’aver perso il voto popolare perché milioni di immigrati avrebbero votato irregolarmente, i principali media non hanno più abboccato all’amo della mera notizia da riprendere. Il New York Times, fin dal suo titolo principale, ha detto esplicitamente che Trump ha ripetuto una menzogna non provata. E il Washington Post ha seguito la stessa linea. Possiamo immaginare che, come già nel caso dei rapporti tesi con l’intelligence, Trump anche in quest’occasione stia seguendo la stessa parabola di Nixon? All’inizio della sua Presidenza, gli americani avevano toccato il più basso livello di fiducia nei media, come sta avvenendo adesso con Trump. Ma alla caduta di Nixon lo stesso livello aveva toccato il picco massimo.

LA STORICA MARCIA DELLE DONNE

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Washington, Pennsylvania Avenue, Marcia delle Donne

Sabato 21 gennaio 2017 rimarrà comunque negli annali della Storia, e non solo perché anche quel giorno la metropolitana ha superato il numero record di 1 milione di ingressi. Il centro di Washington, cioè l’area adiacente al National Mall, per ore è stato invaso da centinaia di migliaia di persone arrivate da tutti gli Stati Uniti per manifestare la loro opposizione a Donald Trump. L’occasione è stata fornita dalla Marcia delle Donne.

Nata per caso subito dopo l’elezione di Trump attraverso un post pubblicato su Facebook da Theresa Shook, una nonna delle Hawaii con tre nipoti, già in pochissimi giorni dello scorso novembre oltre 100mila persone avevano annunciato la loro partecipazione alla “Women’s March On Washington”. Quelle donne stavano esprimendo non solo la loro opposizione politica al nuovo Presidente. Stavano rimarcando le volte in cui, durante la campagna elettorale, Trump aveva usato un linguaggio sessista e offensivo contro giornaliste, attrici, donne rappresentanti del Congresso. In un audio che mai aveva potuto smentire, Trump aveva affermato di poter tranquillamente afferrare una donna per i genitali. La Marcia su Washington, suggerita dal semplice sfogo di una nonna preoccupata per il futuro delle nuove generazioni, era diventata l’occasione per esprimere il disagio di molte donne americane. Se alcune stime dicono che nella Capitale hanno sfilato almeno mezzo milione di persone, osservando le centinaia di marce gemelle tenutesi in diverse città americane lo stesso giorno, a partire da quelle affollatissime di Chicago e New York, è possibile che in tutti gli Stati Uniti almeno 3 milioni di persone siano scese in strada per manifestare contro Trump. E parliamo sempre di dati al ribasso.

Il successo della Marcia delle Donne a Washington era prevedibile da settimane. Gli organizzatori avevano immaginato di radunare circa 200mila persone. Si sapeva, inoltre che la città aveva rilasciato 1200 pass per il parcheggio degli autobus al RFK Stadium, contro i soli 200 richiesti per il giorno dell’inaugurazione di Trump. Che si fosse andati oltre le migliori aspettative è stato evidente sin dalla prima mattinata di sabato. Anche le stazioni periferiche della metropolitana erano affollatissime e molte persone hanno condiviso sui social media fotografie e tempi d’attesa oltre l’ora solo per riuscire ad entrare nelle singole stazioni. Si sono viste persone camminare, incuranti del pericolo, lungo i bordi delle autostrade adiacenti il lato sud del National Mall. Percorrendo a piedi 7th Street dalla stazione di Chinatown in direzione sud, già alle 10 del mattino era impossibile procedere oltre Pennsylvania Avenue: una massa fitta di persone occupava l’oltre mezzo chilometro necessario per raggiungere il lato opposto del Mall. Scene simili si sono ripetute per tutto il giorno e immagini riprese dalle telecamere fisse nei due giorni mostrano l’impressionante partecipazione alla Marcia delle Donne al confronto della pur presenziata cerimonia di Trump. All’ultimo minuto, senza arrivare alla necessaria cancellazione avvenuta a Chicago sempre per il sovraffollamento oltre le previsioni, a Washington gli organizzatori sono stati costretti a modificare il percorso della Marcia: evitando la tappa finale alla Casa Bianca, centinaia di migliaia di persone hanno sfilato attorno al National Mall, creando per ore un anello umano senza soluzioni di continuità.

L’AMERICA CHE NON HA VOTATO TRUMP

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Washington, Constitution Avenue, tanti gli uomini alla Marcia delle Donne

Ma non sono state le sue immense dimensioni la caratteristica più significativa della “Women’s March on Washington”, quanto la sua diversificata composizione. Il pubblico arrivato per festeggiare Trump appariva omogeneo e prevalentemente composto da bianchi, cosa che colpisce ancora di più in una città come Washington, dove la metà della popolazione è afroamericana e i bianchi non arrivano al 40% del totale. I volti dei partecipanti alla Marcia delle Donne mostravano invece un’America opposta, assolutamente eterogenea. Oltre ai tantissimi uomini, la Marcia è stata un catalizzatore per le molte minoranze della società americana: neri, asiatici e ispanici su tutti. Ma è stata anche lo scenario per la rappresentazione delle diverse idee di famiglia oltre quella tradizionale di uomo e donna, per le comunità di gay, lesbiche e transgender. Attraverso cartelli, simboli o il semplice abbigliamento, molti mostravano con orgoglio il loro credo religioso: ebrei, musulmani, sikh.

Quest’America che rivendica la reale uguaglianza dei diritti di tutti gli americani, che crede nella diversità culturale, e la pratica talvolta anche a fatica, vive soprattutto nelle grandi aree metropolitane e in quelle contee che hanno votato per Hillary Clinton. Sono le stesse contee dove si concentrano i 2/3 della ricchezza prodotta ogni anno negli Stati Uniti. Questa America eterogenea è sempre più maggioranza nel Paese ed è il suo vero motore economico. Solo un complicato sistema elettorale, disegnato per garantire l’equilibrio istituzionale della Federazione, le ha impedito di vincere le elezioni presidenziali nel 2016. E sta consentendo ai conservatori e al partito repubblicano di ritardare ancora una volta quell’evoluzione politica necessaria per stare al passo delle trasformazioni sociali in atto da decenni.

GLI INTERROGATIVI SULLE SCELTE DI POLITICA ESTERA

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Washington, McPherson Square, manifestazione contro Donald Trump organizzata da DisruptJ20

Politiche sono anche le domande che rimangono sul tappeto dopo questa due giorni che ha animato Washington e gli Stati Uniti. Con un occhio particolare al futuro dell’opposizione a Donald Trump.

Per il resto del Mondo, a partire dagli europei le domande riguardano la politica estera della nuova amministrazione. Davvero Trump inizierà una guerra commerciale con la Cina? Il Pentagono darà il via libera senza contrasti al ventilato ridimensionamento della NATO? Sarà sufficiente l’amicizia tra il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson con Vladimir Putin per arrivare ad una nuova distensione con la Russia? Quanto incideranno le rivelazioni e le inchieste in corso sulle ingerenze russe nelle elezioni USA, forse avvenute anche con l’intento di agevolare la vittoria dello stesso Presidente Trump? Che succederà in Medio Oriente, a partire dalla Siria e dal conflitto con l’ISIS? Davvero poi il nuovo Presidente sposterà l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, così rianimando le tensioni con i palestinesi e con i loro alleati mediorientali? È possibile che la proverbiale imprevedibilità di Trump nasconda in realtà la totale mancanza di strategia della sua amministrazione. Il ritardo con cui stanno avvenendo nomine chiave nei ruoli di sottogoverno e dirigenza delle principali agenzie federali sembra confermare questa impressione. Le diplomazie di mezzo Mondo sono alla finestra.

Gli americani, a partire dagli osservatori politici di lungo corso, si pongono invece domande che hanno sicuramente una rilevanza prima di tutto nazionale. Ma osservare queste dinamiche di politica interna, anche dall’Europa, potrà aiutare a comprendere le mosse complessive dell’amministrazione USA nei prossimi quattro anni.

LA VERA POSTA POLITICA IN GIOCO PER I DEMOCRATICI NON È A WASHINGTON

La vittoria di Trump ha posto il sigillo su un sostanziale dominio che i repubblicani esercitano da anni nella politica americana (in attesa di chiudere di nuovo il cerchio con la nomina alla Corte Suprema). Non solo la Presidenza, il Senato e la House of Representatives sono nelle mani del Grand Old Party (GOP), ma anche la maggior parte delle legislature statali e dei governatori sono sotto il controllo del Partito Repubblicano. Tra l’altro, proprio la dominanza nelle elezioni dei singoli parlamenti statali ha rafforzato il dominio: perché ad ogni vittoria sono state queste assemblee a ridisegnare maliziosamente i confini elettorali (gerrymandering), confinando gli elettori democratici in distretti dove vincono con percentuali schiaccianti, inutili nei sistemi maggioritari. A novembre del 2018, cioè fra poco meno di due anni, si terranno le elezioni di Midterm. Più che su tutti i 435 posti in ballo alla House, gli occhi saranno puntati sui soli 33 in gioco al Senato. In genere la Storia dice che alle elezioni di Midterm il partito del Presidente ha le maggiori probabilità di sconfitta. Ma alla prossima tornata elettorale la situazione potrebbe invece rivelarsi vantaggiosa per i repubblicani, tenuto anche conto che l’elettorato repubblicano, generalmente più anziano, vota più di quello democratico al giro di metà mandato. Alla House non c’è comunque competizione e rimarrà saldamente repubblicana. Dieci senatori democratici sono invece in Stati dove Donald Trump ha vinto. Questo significa che saranno proprio i democratici a trovarsi sotto pressione, offrendo ai repubblicani la possibilità di consolidare la presa sul Senato prima di avere quella di un ribaltamento della maggioranza.

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Washington, Marcia delle Donne, tra i democratici c’è già chi sogna Michelle Obama in corsa per la Casa Bianca nel 2020, anche se ha più volte escluso di voler fare politica

Se i democratici sembrano destinati alla difensiva per le prossime elezioni di Midterm, con questo aumentando il potere di Trump, cos’è che genera davvero interesse nei numeri impressionanti della Marcia di Washington?

Nel 2018 ci saranno anche elezioni per le assemblee legislative in quasi tutti gli Stati e dovranno essere eletti 36 Governatori. È in queste competizioni che i democratici potrebbero avere delle concrete possibilità di vittoria e sulle quali stanno realmente giocando le loro carte: perché, come già ricordato, è a livello di legislature statali che vengono decisi e tracciati i confini dei distretti elettorali, gli stessi che entrano poi in gioco per le elezioni del Congresso e del Presidente. I nuovi dati del censimento 2020 saranno quelli sui quali avverrà il cosiddetto “redistricting” che entrerà in vigore nel 2022 e rimarrà invariato sino al 2030. Questa operazione verrà realizzata dalle legislature elette proprio nel 2018. Per i democratici sarà pertanto fondamentale, sin da ora, mantenere motivata la propria base. Anche utilizzando eventi come la Marcia delle Donne, con l’obiettivo di incanalare quell’energia nelle urne e di sfruttare a proprio vantaggio i cambiamenti demografici in atto nel Paese. Chi, con il suo enorme consenso popolare, aiuterà il Partito Democratico nella realizzazione di questo piano? L’ex Presidente Barack Obama. Già prima delle elezioni non aveva fatto mistero che non si sarebbe ritirato dalla vita politica, almeno non da quella lontana dai riflettori. E aveva detto che il suo prossimo lavoro sarebbe stato quello di collaborare con l’amico ed ex Procuratore Generale Eric Holder per contrastare le storture del “gerrymandering”.

Anche se la grande maggioranza dei partecipanti alla Marcia di Washington non ne ha consapevolezza, è sulle loro teste che è stato fischiato l’inizio di questa partita. Fondamentale per il futuro dell’America e non solo.

Come dicono molti commentatori americani, osservando le incertezze di questa nuova stagione politica apertasi con l’elezione di Trump, allacciate le cinture di sicurezza. La corsa si preannuncia turbolenta.


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